Orphée dal palcoscenico allo schermo
Cocteau ha sempre dimostrato nella sua opera un fortissimo interesse verso la mitologia classica e moderna: accanto ad Orfeo ed Euridice troviamo Edipo e sua figlia, Narciso, Pegaso e Perseo, personaggi tratti dalla Bibbia come Giuditta ed Oloferne, fino ai protagonisti di opere letterarie più recenti: Romeo e Giulietta, Rinaldo e Armida, i cavalieri della Tavola Rotonda, Tristano e Isotta, la Bella e la Bestia. Una possibile spiegazione di questo fenomeno potrebbe essere l’ondata di rifacimenti e rivisitazioni che attraversò la scena teatrale francese (ma anche europea) intorno al secondo quarto del secolo: autori come Gide, Sartre, Anouilh e Giraudoux, per non citare che i nomi più noti, hanno composto dei drammi che riprendevano in chiave moderna intrecci teatrali millenari, tratti dalla mitologia classica (il ciclo di Tebe e quello di Troia in particolare) o dal serbatoio inesauribile delle leggende medievali.
Anche se Cocteau è stato sempre attento alle mode culturali che si sviluppavano attorno a lui, e sebbene in questo caso alcuni dati cronologici dimostrino come egli sia stato l’iniziatore di questa ondata piuttosto che un mero epigono, le radici di questo interesse per il mito sono più profonde e personali. Al di là dell’ipotesi avanzata da alcuni commentatori, secondo cui questo avvicinamento al mito è uno dei tanti effetti dell’influenza “classicheggiante” di Radiguet, la riutilizzazione di fabulæ già da tempo entrate di forza nella cultura collettiva dell’Occidente è perfettamente coerente con la rete simbolico-poetica di cui nel capitolo precedente abbiamo tracciato le grandi linee.
Cocteau afferma di preferire decisamente il mito alla storia:
La mythologie grecque, si l’on s’y plonge, nous intéresse davantage que les déformations et simplifications de l’Histoire, parce que ses mensonges restent sans alliage de réel, alors que l’Histoire est un alliage de réel et de mensonge. Le réel de l’Histoire devient un mensonge. L’irréel de la fable devient vérité. […] Le mythe a des racines plus noueuses que celles de l’Histoire et plus profondes.
La questione è ancora una volta quella del limite imprecisabile fra due mondi, in questo caso fra la verità (del mito) e la menzogna (della Storia). Il fatto che il mito menta è acquisito come una realtà, e l’individuo accetta di lasciarsi assorbire da questa impostura. Nell’approccio al mito c’è una volontà di trasfigurazione, la ricerca di un’identità alternativa:
L’homme cherche à se fuir dans le mythe. Il s’y emploie par n’importe quel artifice. Drogues, alcool ou mensonges. Incapable de s’enfoncer en lui-même, il se déguise. Le mensonge et l’inexactitude le soulagent quelques minutes, lui procurent la petite délivrance d’une mascarade. Il décolle de ce qu’il éprouve et de ce qu’il voit. Il invente. Il transfigure. Il mythifie. Il crée. Il se flatte d’être un artiste.
E’ risaputo che la mitopoiesi è una facoltà innata dell’uomo. Per Cocteau essa ha la funzione precisa di creare una dimensione differente nella quale l’individuo possa trovare rifugio; deluso o stanco dell’esistenza quotidiana, il mitografo ricorre alla favola per trovare un universo in cui la realtà sia diluita e dilatata, pur conservando la sua referenzialità. Non è casuale il riferimento alle droghe e all’alcool, strumenti di alterazione della coscienza: come gli stupefacenti, il mito apre le porte di un altro mondo, permette di attraversare lo specchio.
Ancora una volta, dunque, ci troviamo a postulare l’esistenza di due mondi, non isolati, ma suscettibili di interscambi. In una poesia intitolata “Le rythme grec” troviamo:
Hommes et dieux habitent le même immeuble
Et parfois ils se rencontrent dans l’escalier.
Proprio come i vivi e i morti, gli uomini e gli dei coabitano nello stesso spazio, pur senza rendersene conto. La figura della scala che permette di andare e venire da un mondo all’altro, collegata con l’aneddoto biblico del sogno di Giacobbe, è in questo caso l’equivalente simbolico dello specchio: entrambi permettono la compenetrazione fra i due sistemi dimensionali. Ma ancora:
Rien n’est du crime d’Oreste
Vu sauf près d’un piscine.
A Mycènes l’acte reste
Par lequel il assassine.
De cette étonnante scène
S’acharne un tableau vivant.
Nous le vîmes à Mycènes
Après je veux dire avant.
In queste due strofe Cocteau sottolinea uno degli aspetti principali del mito, che è quello di dilatarsi al di fuori dei limiti spazio-temporali. “Queste storie non avvengono mai, ma sono sempre”. Alla luce degli aspetti della poetica cocteliana che abbiamo enucleati, è naturale che Cocteau si accosti con interesse alla mitologia, che gli permette di appropriarsi di qualcosa che, come l’angelo, come la poesia e come il film, continua a vivere senza preoccuparsi dei limiti imposti dalle dimensioni. “Pour Cocteau, le mythe est avant tout la vérité d’un univers intégral où régnait, en des temps immémoriaux, l’unité absolue entre les dieux, les êtres et les choses”.
Prima di affrontare direttamente la versione offerta da Cocteau del mito di Orfeo e di Euridice è interessante analizzare brevemente un’opera che precede di poco Orphée, e che è la prima pièce, in ordine cronologico, in cui l’autore abbia esplicitamente ripreso un mito antico: Antigone. Rappresentata per la prima volta il 20 dicembre 1922 a Parigi, al Théâtre de l’Atelier, quest’opera è presentata come una traduzione o una contrazione della tragedia di Sofocle:
C’est tentant de photographier la Grèce en aéroplane. On lui découvre un aspect tout neuf.
Ainsi j’ai voulu traduire Antigone. A vol d’oiseau de grandes beautés disparaissent, d’autres surgissent ; il se forme des rapprochements, des blocs, des ombres, des angles, des reliefs inattendus.
Peut-être mon expérience est-elle un moyen de faire vivre les vieux chefs-d’œuvre. A force d’y habiter nous les contemplons distraitement, mais parce que je survole un texte célèbre, chacun croit l’entendre pour la première fois.
In questa breve presentazione del suo dramma, Cocteau spiega il motivo di una nuova versione del mito di Antigone: l’inserimento dell’intreccio antico nel mondo moderno provoca la compenetrazione di due universi distinti e l’abolizione delle dimensioni temporali. Da questa operazione deriva una nuova fruizione del mito, che rimane immutato benché inserito in una temperie culturale del tutto differente.
Ma il mito riesce a conservare la sua forza ed il suo valore nel tempo proprio perché si adatta al nuovo contesto in cui viene inserito. Alcune note di regia di Cocteau sono illuminanti in proposito:
L’extrême vitesse de l’action n’empêche pas les acteurs d’articuler beaucoup et de remuer peu. Le chœur et le coryphée se résument en une voix qui parle très haut et très vite comme si elle lisait un article de journal. Cette voix sort d’un trou, au centre du décor.
Naturellement, aucune figuration n’escorte les personnages.
La caratteristica fondamentale di questa Antigone è la velocità (e sarebbe inutile insistere sul concetto di velocità come tratto caratterizzante della civiltà moderna), insieme ad una sorta di anonimato al quale sono costretti i personaggi: ne deriva un effetto di banalizzazione del mito. La tragedia della stirpe di Edipo viene ridotta ad un fatto di cronaca; il coro dei vecchi tebani si riduce alla voce di uno speaker. In questo non è da vedere una volontà dissacratoria, quanto piuttosto la dimostrazione della validità universale dei valori che la fabula mitica mette in gioco. Cocteau, contrariamente per esempio ad Anouilh, non crea con questo dramma una nuova versione del mito, e nel suo caso non si può parlare di mito letterario nel senso in cui lo intende Albouy. Infatti l’autore parla piuttosto di contrazione: come faceva nello stesso periodo con Roméo et Juliette, egli si limita ad eliminare il superfluo e a mettere in rilievo la struttura emotiva profonda che intrecci narrativi di questo calibro portano in sé. Nella versione originale di Sofocle, il primo stasimo della tragedia è un brano di altissimo lirismo, in cui i cittadini di Tebe celebrano la grandezza dell’uomo e le sue vittorie sulla natura. In Cocteau, ecco cosa resta di tanto slancio:
L’homme est inouï. L’homme navigue, l’homme laboure, l’homme chasse, l’homme pêche. Il dompte les chevaux. Il pense. Il parle. Il invente des codes, il se chauffe et il couvre sa maison. Il échappe aux maladies. La mort est la seule maladie qu’il ne guérisse pas. Il fait le bien et le mal. Il est un brave homme s’il écoute les lois du ciel et de la terre, mais il cesse de l’être s’il ne les écoute plus.
In questo andamento paratattico e monotono non resta niente del sapore epico del testo di partenza. La tragedia di Antigone per Cocteau si abbassa al livello della banalità quotidiana, pur restando una validissima meditazione sul conflitto fra ragion di stato e leggi non scritte. Come l’angelo può scendere fra i mortali, così il mito può insinuarsi nel quotidiano. Analogamente, Orfeo ed Euridice sono rappresentati da Cocteau come una coppia in crisi, ovvero quanto di più banale possa esistere nella civiltà contemporanea.
Fra i miti che la modernità ha ereditato dai Greci, il mito di Orfeo è comunque quello da cui Cocteau è rimasto più affascinato, per non dire ossessionato, e che ha trattato in vari momenti della sua vita. Al cantore tracio sono dedicati un dramma, un film, un balletto, una quantità quasi incalcolabile di disegni e pitture, ed a lui si fa spesso riferimento nell'opera poetica. Del resto è normale che un poeta come Cocteau, che tale si è voluto e si è dichiarato anche quando si trovava dietro una cinepresa o quando impugnava un pennello, abbia subito la tentazione dell'identificazione con Orfeo, il Poeta per antonomasia. Bisogna inoltre notare che la favola di Orfeo mette in gioco alcuni temi che sono, come abbiamo visto, centrali nell'universo cocteliano: la morte e la resurrezione del poeta, l'esistenza di due mondi speculari, il passaggio dall'uno all'altro dei due mondi. Cocteau stesso riconosce:
Ma démarche morale étant celle d’un homme qui boite, un pied dans la vie et un pied dans la mort, il était normal que j’en arrivasse à un mythe où la vie et la mort s’affrontent.
Ma prima di affrontare la questione del trattamento del mito di Orfeo da parte di Cocteau, bisogna spiegare le circostanze che portarono alla nascita della pièce che porta il suo nome. Scritta durante l’estate del 1925, cioè nella fase centrale del periodo di conversione di Cocteau, essa porta i segni dello stato quasi mistico in cui si trovava l’autore in quei mesi. Ma all’origine il rapporto di Orphée con la religione cristiana era molto più evidente:
Ma pièce Orphée devait être primitivement une histoire de la Vierge et de Joseph, des ragots qu’ils subirent à cause de l’ange (aide-charpentier), de la malveillance de Nazareth en face d’une grossesse inexplicable, de l’obligation où cette malveillance d’un village mit le couple de prendre la fuite.
L’intrigue se prêtait à de telles méprises que j’y renonçai. Je lui substituai le thème orphique où la naissance inexplicable des poèmes remplacerait celle de l’Enfant Divin.
L’ange y devait jouer un rôle, sous l’aspect d’un vitrier.
Dunque Orphée è il risultato della laicizzazione di un dramma biblico. Il motivo di questa flessione è fornito dallo stesso Cocteau: un dramma in cui dei personaggi accusassero la Madonna di adulterio e l’Arcangelo di fornicazione non era ovviamente accettabile da parte dell’ambiente cattolico che frequentava in quegli anni Cocteau, per quanto aperto potesse essere il circolo di Maritain. Ma un’altra motivazione che potrebbe essere addotta è che il tema orfico ha una portata più universale di quello biblico, e permette di trattare più direttamente è con più libertà la questione della poesia; ciò è inoltre da mettere in relazione con la preferenza, già citata, che Cocteau accorda al mito piuttosto che alla Storia.
Andato in scena per la prima volta a Parigi, al Théâtre des Arts, il 17 giugno 1926, Orphée si presenta come una tragedia in un atto e un intervallo che tratta le vicende di Orfeo e della sua sposa rispettando in maniera abbastanza fedele le tradizioni attestate del mito. Il protagonista è il poeta Orfeo, sposo di Euridice, da lui sottratta alla partecipazione alle nefandezze della Baccanti. Avendo perduto sua moglie, egli si reca nell’aldilà ottenendo dalle potenze infernali di avere indietro Euridice, a patto di non guardarla. Orfeo disobbedisce alla prescrizione, e perde Euridice per la seconda volta. Egli muore per mano delle Baccanti furiose che lo decapitano e raggiunge la sua sposa nell’aldilà. Cocteau, riprendendo lo schema minimo del mito, si basa sugli scrittori classici che hanno trattato il mito di Orfeo, soprattutto su Virgilio che nel libro quarto delle Georgiche ne codifica in maniera definitiva la struttura. Tutti gli elementi del mito tradizionale sono ripresi, ma vengono arricchiti ed accompagnati da alcune novità. Non mancano inoltre riferimenti ad Ovidio, a Pausania ed a Schuré.
Per facilitare la comprensione dell’analisi che segue, è necessario riassumere l’intreccio del dramma. Il sipario si alza su Orfeo che decifra i messaggi trasmessi a colpi di zoccolo da un misterioso cavallo, ed Euridice che gli rimprovera di dedicare troppa attenzione a questo animale; a causa sua scoppia una lite, al culmine della quale Orfeo rompe un vetro della finestra per fare salire a casa Heurtebise, vetraio ambulante, sospettato di essere in rapporti troppo intimi con Euridice. Orfeo esce per inviare una sua composizione, dettatagli dal cavallo, ad un concorso nazionale di poesia, ed Euridice ne approfitta per chiedere consiglio a Heurtebise riguardo all’intrattabilità di Orfeo dal giorno in cui il cavallo è entrato nelle loro vite. Euridice lecca il veleno nascosto in una busta inviatale da Aglaonice, capo di un circolo di donne dai costumi anticonformisti di cui Euridice faceva parte, e in punto di morte manda Heurtebise a cercare Orfeo. E’ a questo punto che entra in scena la Morte, accompagnata da due aiutanti, che mette in opera strani macchinari per fare morire Euridice, e che uccide il cavallo con una zolletta di zucchero avvelenata che Heurtebise aveva destinato allo stesso scopo. Ad Orfeo, disperato nel trovare sua moglie morta tornando a casa, Heurtebise rivela “le secret des secrets”: è possibile raggiungere il regno dei morti passando attraverso lo specchio. E’ quello che Orfeo farà, col pretesto di restituire alla Morte un paio di guanti che aveva dimenticato. Heurtebise rimane solo, arriva un postino che recapita una lettera. Dopo un brevissimo intervallo, si ripete la scena del postino, seguita dal ritorno su scena di Orfeo che ha recuperato Euridice a condizione di non guardarla, sotto pena di perderla nuovamente. Ma i tentativi di rispettare questa condizione innervosiscono i due coniugi, che tornano a litigare a causa del passato di Euridice. Orfeo, spinto da Euridice, perde l’equilibrio e la guarda: Euridice scompare. Fingendo di avere causato la sua morte premeditatamente, Orfeo apre la lettera che era stata recapitata durante il suo viaggio nell’aldilà: è una lettera minatoria anonima. Si ode un insistente rullo di tamburi: sono le Baccanti capeggiate da Aglaonice, che reclamano la testa di Orfeo. Secondo loro, l’acrostico della frase inviata da Orfeo al concorso di poesia, “Madame Eurydice reviendra des enfers”, forma una parola ingiuriosa nei confronti della giuria. Orfeo si affaccia sul balcone per calmarle, viene decapitato e la sua testa rimbalza sulla scena. Euridice si sporge dallo specchio per portare con sé il corpo invisibile di Orfeo. Entra il Commissario per interrogare Heurtebise, sospettato dell’omicidio; secondo la sua versione dei fatti, le Baccanti erano venute ad acclamare Orfeo, e lo hanno visto sporgersi insanguinato al balcone e cadere morto. Durante l’interrogatorio Heurtebise fugge non visto dentro lo specchio; è la testa di Orfeo, che Heurtebise aveva poggiato su un piedistallo a guisa di busto, a rispondere alle domande del Commissario. Questi si accorge della fuga ed esce di scena portando con sé la testa. Nell’ultima scena vediamo il trio riunito nell’aldilà: i personaggi pranzano insieme nella più completa serenità. Accingendosi a mangiare, Orfeo recita una preghiera:
Mon Dieu, nous vous remercions de nous avoir assigné notre demeure et notre ménage comme seul paradis et de nous avoir ouvert votre paradis. Nous vous remercions de nous avoir envoyé Heurtebise et nous nous accusons de n’avoir pas reconnu notre ange gardien. Nous vous remercions d’avoir sauvé Eurydice parce que, par amour, elle a tué le diable sous la forme d’un cheval et qu’elle en est morte. Nous vous remercions de m’avoir sauvé parce que j’adorais la poésie et que la poésie c’est vous. Ainsi soit-il.
E’ proprio in questa preghiera che si trova la traccia più evidente, ma anche più superficiale, della conversione che Cocteau attraversava al momento della stesura di Orphée. Nel resto dell’opera non si fa alcun riferimento esplicito alla religione cristiana, anche perché gli avvenimenti si svolgono in una Tracia stilizzata e modernizzata, ma pur sempre pagana. Del resto nel periodo della stesura di Orphée la fede di Cocteau cominciava già a vacillare, fino alla rottura definitiva con Maritain avvenuta nell’ottobre successivo. Nella preghiera finale si trovano alcuni spunti per un’interpretazione del significato globale del dramma che alla fine si rivela piuttosto falsata: se il cavallo di Orfeo è un’incarnazione del male, come è scritto, non sta in piedi la concezione positiva del soprannaturale, di quell’ailleurs che è la fonte primigenia della vera poesia. L’entità a cui è indirizzata la preghiera ci sembra inoltre coincidere, più che con il dio giudeo-cristiano, con il Seigneur inconnu dei già citati Sept dialogues, il cui santuario ha nome Poesia. Appare infine forzata l’interpretazione del personaggio di Heurtebise come angelo custode, essendo egli sì una figura angelica, ma il cui unico scopo è quello di aiutare Orfeo nel suo cammino iniziatico verso la poesia. Siamo quindi portati a pensare che questa scena finale sia come una sorta di refuso, ovvero un’ultima concessione alla fase religiosa che Cocteau stava finendo di attraversare.
Al di là dell’interpretazione cristiana del mito di Orfeo, che peraltro è stato rivisto varie volte in chiave cristico-ascetica, è comunque evidente che Cocteau riprende il mitologema orfico rispettandolo, ma pur sempre rimaneggiandolo a proprio uso e consumo; le innovazioni apportate all’intreccio tradizionale hanno proprio la funzione di avvicinarlo al sistema poetico-simbolico cocteliano. Fra queste, quella che per prima salta agli occhi è l’inserimento, accanto alla coppia mitica, di un terzo personaggio di discendenza ultramondana. Abbiamo già visto come nella poetica di Cocteau la figura dell’angelo rivesta un ruolo di capitale importanza, essendo egli un vero e proprio conduttore di poesia. Ma nel caso di Orphée questo suo ruolo viene particolarmente accentuato. Alcuni studiosi fanno notare che la funzione di Heurtebise all’interno della pièce è analogo al ruolo di Hermes in una delle attestazioni classiche del mito. Hermes nella mitologia greca ricopre, fra le altre, due funzioni precise: egli è il messaggero degli dei, è dunque l’anghelos per eccellenza, colui che fa la spola fra il mondo degli umani e quello degli immortali per stabilire un contatto fra i due. Inoltre, proprio per questa sua capacità di passare indistintamente da una dimensione all’altra, egli è colui che è incaricato, come San Michele nella religione cristiana, di guidare le anime dei morti nell’Ade. Per questa sua funzione di psicopompo egli partecipa dunque dei tre mondi: quello dei mortali, quello degli dei e quello dei morti. Ecco che Hermes rientra allora perfettamente nell’ideologia di Cocteau, e sembra quasi un personaggio di una delle sue poesie, apparentandosi al protagonista di “Visite”, a Léone, ed infine allo stesso Heurtebise.
Nella versione antica del mito in cui Hermes viene raffigurato accanto ai due sposi, egli ha il compito di sorvegliare le entrate e le uscite dall’Ade, e di guidarli nel loro contatto con l’altro mondo e con il soprannaturale in genere. La sua funzione coincide allora con quella di Heurtebise: anche lui è la guida di Orfeo, ma pure di Euridice, alle prese con un mondo differente dal loro, come è anche il guardiano dello specchio, ovvero della porta del regno dei morti. Non è un caso che egli sia presentato sotto l’aspetto di un vetraio, con le sue lastre di vetro legate sulla schiena, che vengono a rappresentare così un paio di ali stilizzate. Sempre secondo la logica per cui il soprannaturale discende in questo mondo assumendo un aspetto familiare ai suoi abitanti, l’angelo è un comunissimo vetraio ambulante, così come era un aiutante falegname nella concezione originaria della pièce. In più, l’elemento vitreo dello specchio, a cui l’angelo è qui fortemente correlato, è conservato nella dimensione terrena.
Lo stesso si dica dell’altra innovazione apportata da Cocteau, il cavallo che trasmette la poesia, di cui la radio nell’automobile della principessa costituisce l’omologo nella versione cinematografica. Questo animale è il veicolo che il soprannaturale ha scelto per manifestarsi ad Orfeo, ed è proprio l’animale che fra i primi è stato addomesticato dall’uomo, quindi il più familiare a lui dalla notte dei tempi. Orfeo subisce il fascino magico del cavallo, cioè dell’aldilà, e per assecondare questa fascinazione (Cocteau stesso parla di “envoûtement”) sacrifica la sua carriera affermata di poeta ufficiale per addentrarsi verso le origini stesse della Poesia. Ed è proprio questo che Euridice gli rimprovera:
Tu étais chargé de gloire, de fortune. Tu écrivais des poèmes qu’on s’arrachait et que toute la Thrace récitait par cœur. Tu glorifiais le soleil. Tu étais son prêtre et un chef. Mais depuis le cheval tout est fini.
Euridice, donna tutta terrena ed impermeabile al mistero (“Le mystère est mon ennemi. Je suis décidée à le combattre”), non riesce a capire come Orfeo possa rinunciare alla gloria che ha conquistato con le sue poesie per perseguire un altro genere di poesia, una poesia che non è di questo mondo e che per questo è affascinante, quel tipo di poesia che Cocteau pratica a partire da Le Potomak e che abbiamo appunto chiamato poesia orfica. Orfeo risponde ad Euridice:
Colle ton oreille contre cette phrase. Ecoute le mystère. […] Nous nous cognons dans le noir ; nous sommes dans le surnaturel jusqu’au cou. Nous jouons à cache-cache avec les dieux. Nous ne savons rien, rien, rien. « Madame Eurydice reviendra de enfers », ce n’est pas une phrase. C’est un poème, un poème du rêve, une fleur du fond de la mort.
Orfeo comprende ed assume in pieno la sua inferiorità nei confronti del soprannaturale. Si rende conto che il cavallo altro non è che un pezzo visibile dell’immensa “machine infernale” ordita contro di lui dagli dei. Riesce a capire che la poesia dettatagli dal cavallo è strettamente imparentata con il sogno e con la morte. Non per questo si arrende o cerca, come Euridice, di lottare contro il mistero, ma al contrario si accanisce ad indagarlo e si lascia assorbire nel gioco a nascondino con gli dei.
Non è chiara però l’interpretazione che bisogna dare alla figura del cavallo alla luce della preghiera finale che abbiamo già citato, in cui si parla dell’animale come di un’incarnazione del male, e di Euridice come della salvatrice di Orfeo. In effetti la questione è controversa: se è vero che esso rappresenta la poesia nella sua più alta accezione, cioè, lo ripetiamo, proveniente in modo diretto dall’aldilà, ci si domanda allora per quale motivo Heurtebise, anche lui creatura dell’altro mondo e per questo da considerare connaturato e complice del cavallo, aveva portato ad Euridice una zolletta di zucchero avvelenata ad esso destinata. Sono possibili alcune spiegazioni più o meno plausibili. Heurtebise potrebbe essere motivato ad eliminare il cavallo da un sentimento, in verità poco ultramondano, nei confronti di Euridice, contravvenendo così ai dettami del mondo a cui appartiene. Questa ipotesi potrebbe essere avallata alla luce della situazione di Heurtebise nella versione filmica: come vedremo in seguito, nel film Heurtebise confessa in effetti di amare Euridice. Ma proprio per questo essa ci appare forzata, influenzata a posteriori dalla visione del film. Seconda ipotesi: Coc-teau aveva bisogno di introdurre sul palcoscenico un mezzo con cui la Morte, nella scena sesta del dramma, potesse fare uscire di scena il cavallo. Anche questa ipotesi regge a fatica: la Morte poteva trarre a sé il cavallo in molte altre maniere, ed inoltre la scena in cui Heurtebise ed Euridice esitano nel somministrare il veleno al cavallo (scena terza) è troppo lunga ed insistita per essere un mero stratagemma scenico. Terza ed ultima ipotesi, Heurtebise vuole uccidere il cavallo perché Orfeo non è più considerato degno di ricevere i suoi messaggi; ma perché allora iniziarlo ai misteri dello specchio? Ed arriviamo alla spiegazione che ci sentiamo di fornire: il cavallo e i suoi messaggi non costituiscono che la prima fase del cammino di Orfeo verso la poesia; dopo avere percepito che la vera poesia non è quella che termina con la gloria, quella ufficiale, ma piuttosto quella il cui inizio e il cui fine non sono riscontrabili in questo mondo, il Poeta deve impegnarsi a raggiungere il mondo dei morti, vero e proprio alpha e omega della poesia, per potere attingere ad essa senza intermediazioni.
La terza ed ultima novità evidente che Cocteau inserisce nello schema del mito è la presenza di un quarto personaggio, che è la Morte in persona. Questo personaggio appare sul palco solo per una breve scena, al centro del dramma, ma la sua presenza è molto importante non tanto per il suo ruolo all’interno dell’economia drammaturgica, quanto piuttosto per la sua rappresentazione. In esergo al testo di Orphée, ecco come ce la presenta Cocteau:
La Mort est une jeune femme très belle en robe de bal rose vif et en manteau de fourrure. Cheveux, robe, manteau, souliers, gestes, démarche à la dernière mode. Elle a de grands yeux bleus peints sur un loup. Elle parle vite, d’une voix sèche et distraite. Sa blouse d’infirmière aussi doit être l’élégance même.
La Morte non ha niente a che vedere con l’iconografia classica che l’accompagna. Il tratto che la caratterizza è l’eleganza; questa eleganza è l’esteriorizzazione superficiale del fascino che essa esercita sul poeta. Il personaggio che raffigura la morte deve avere delle qualità che gli permettano di sedurre Orfeo e di legarlo a sé, tanto da fargli trascurare la sua vita terrena per incamminarsi verso di lei. Nella pièce, ma ancora più chiaramente nel film, Orfeo trascura il suo nucleo domestico sotto la fascinazione di questo personaggio attraente, tanto che si può quasi parlare di adulterio.
Questa rottura che opera Cocteau con la tradizione iconografica della morte non è dettata solamente dalla volontà di épater le bourgeois che è riscontrabile in buona parte della produzione teatrale (e non solo) degli anni Venti, ma si allinea perfettamente con il discorso che abbiamo già fatto sulle sembianze che assume il soprannaturale per apparire in questo mondo. La Morte spiega a Raphaël, uno dei suoi aiutanti:
Il y a encore une semaine, vous pensiez que j’étais un squelette avec un suaire et une faux. Vous vous représentiez un croquemitaine, un épouvantail… […] Mais, mon pauvre garçon, si j’étais comme les gens veulent me voir, ils me verraient. Et je dois entrer chez eux sans être vue.
Ancora una volta possiamo notare che gli abitanti dell’altro mondo usano venire presso i mortali, per così dire, in incognito. Come Heurtebise e come il cavallo, anche la Morte ha bisogno di mantenere celata la sua identità; per potere svolgere il suo lavoro, essa deve contravvenire alle aspettative degli uomini e mostrarsi in maniera del tutto differente da come questi se la rappresentano.
La Morte entra dunque in scena per compiere il suo lavoro in abito da sera, accompagnata da due aiutanti in camice da chirurghi, mascherina di garza e guanti di lattice. I personaggi escono fuori dallo specchio, secondo la norma per cui, come spiega Heurtebise ad Orfeo, “les miroirs sont les portes par lesquelles la Mort va et vient”. I tre personaggi intraprendono un misterioso rituale per provocare il passaggio di Euridice dalla vita alla morte. La Morte indossa anche lei un camice sopra il vestito, lava le mani con l’alcool e infila dei guanti da chirurgo. Azraël mette in moto un rumoroso marchingegno che ricorda un elettrogeno e regola delle manopole seguendo le indicazioni dettategli dalla Morte. Questa intanto si è fatta bendare gli occhi e comincia ad eseguire una “gesticulation lente de masseuse et d’hypnotiseur autour d’une tête invisible”. Infine la Morte arrotola una bobina di filo che esce fuori dalla camera di Euridice, ad un’estremità del quale è attaccata una colomba; mentre i due aiutanti gesticolano in maniera bizzarra, la Morte taglia il filo e la colomba vola via. Dopo avere consumato questo rituale i tre scompaiono da dove sono venuti.
Azraël è alle dipendenze della Morte da molto più tempo di Raphaël, che appare impacciato ed ancora poco avvezzo alle regole del mondo dei morti. Fra la Morte, Azraël e Raphaël intercorrono gli stessi rapporti gerarchici che fra la principessa, Heurtebise e Cégeste nel film. Infatti tocca ad Azraël spiegare al suo collega:
La Mort, pour toucher les choses de la vie, traverse un élément qui les déforme et les déplace. Nos appareils lui permettent de les toucher où elle les voit, ce qui évite des calculs et une perte de temps considérable.
Ecco spiegata la funzione dei gesti e dei macchinari che vengono utilizzati per effettuare il trapasso di Euridice. L’apparecchio elettrico è una sorta di commutatore dimensionale, un equivalente tecnologico dello specchio, del sogno e dell’oppio: esso permette di aprire una breccia nel confine fra i differenti sistemi dimensionali mettendoli così in comunicazione. Cocteau qui dimostra lo stesso interesse per un certo filone scientifico che si manifesterà poi più chiaramente nel Journal d’un inconnu.
E’ nel settembre 1949 che cominciano le riprese di Orphée, quinta nonché penultima regia di Cocteau; il film verrà presentato per la prima volta a Cannes nel marzo successivo. Fra Le Sang d’un poète e Orphée ci sono vent’anni e tre film di distanza: Cocteau aveva già realizzato La Belle et la Bête, L’Aigle à deux têtes e Les Parents terribles. Di questi film, gli ultimi due sono degli adattamenti da precedenti opere teatrali dello stesso Cocteau. Per Orphée, decisamente, non si può dire lo stesso: anche se il titolo ed i nomi dei personaggi restano invariati, in questo caso non si può parlare di adattamento. Per L’Aigle à deux têtes e Les Parents terribles, si trattava di mettere in scena lo stesso dramma, ma da un punto di vista differente; l’interesse di una trasposizione cinematografica stava nella diversa tipologia di fruizione da parte del pubblico:
J’ai eu, cette fois, le dessein de porter à l’écran une pièce de théâtre en lui conservant son caractère théâtral. Il s’agissait, en quelque sorte de me promener, invisible, sur la scène, et de saisir les innombrables aspects, nuances, violences et regards qui échappent au spectateur, incapable de les suivre en détail, d’un fauteuil d’orchestre.
Ajouterai-je que j’avais remarqué la force prise par un spectacle de théâtre dès qu’on le regarde à vol d’oiseau, des cintres par exemple, c’est-à-dire sous un angle d’indiscrétion ? Le public, enfermé avec les personnages dans une chambre à laquelle manque un mur, les écoute de plain-pied et sans le caractère mystérieux conféré aux spectacles intimes par la forme capricieuse du trou de serrure.
L’autore non fa altro che cambiare il punto di vista. Questi due esperimenti cinematografici servono quasi come dimostrazione pratica della differenza fra teatro e cinema: attraverso i due film in questione Cocteau dimostra che con gli attori di un film si può instaurare un corpo a corpo in absentia paradossalmente impossibile da realizzarsi a teatro, dove gli attori in carne ed ossa si muovono sotto gli occhi dello spettatore, ma irrimediabilmente e definitivamente separati dalla distanza fra scena e platea e dalla fissità immobile del punto di vista. Con il film è come se lo spettatore si trovasse sul palco, accanto agli attori, e potesse seguirli invisibile ed indisturbato ed osservarli a suo piacimento; non sfuggano, nella citazione precedente, i riferimenti espliciti al cinema come pratica voyeuristica, aspetto cui abbiamo precedentemente fatto cenno.
Totalmente diverso è il discorso per Orphée. A venticinque anni di distanza dalla pièce Cocteau riprende il mito orfico per dargli un nuovo rilievo. Il rapporto fra la sceneggiatura del film ed il testo teatrale è profondo, ma non c’è identità quasi assoluta come per gli altri due adattamenti. Solamente alcune battute, in alcuni punti topici, sono riprese in maniera piuttosto fedele ma con qualche taglio rispetto al testo del 1925. Vediamo a titolo esemplificativo la differenza fra le due realizzazioni della stessa scena, di grande rilievo nell’economia dell’opera, in cui Orfeo spiega a sua moglie la crisi poetica che sta attraversando. Questo il testo teatrale:
EURYDICE – Ta vie se passe à dorloter ce cheval, à interroger ce cheval, à espérer que ce cheval va te répondre. Ce n’est pas sérieux.
ORPHEE – Pas sérieux ? Ma vie commençait à se faisander, à être à point, à puer la réussite et la mort. Je mets le soleil et la lune dans le même sac. Il me reste la nuit. Et pas la nuit des autres ! Ma nuit. Ce cheval entre dans ma nuit et il en sort comme un plongeur. Il en rapporte des phrases. Ne sens-tu pas que la moindre de ces phrases est plus étonnante que tous les poèmes ? Je donnerais mes œuvres complètes pour une seule de ces petites phrases où je m’écoute comme on écoute la mer dans un coquillage. Pas sérieux ? Que te faut-il, ma petite ! Je découvre un monde. Je retourne ma peau. Je traque l’inconnu.
Nella sceneggiatura del film troviamo invece :
EURYDICE – Orphée, tu ne peux pas passer ta vie dans une voiture qui parle. Ce n’est pas sérieux.
ORPHEE – Pas sérieux ? Ma vie commençait à se faisander, à puer la réussite et la mort. Ne comprends-tu pas que la moindre de ces phrases est plus étonnante que tous mes poèmes ? Je donnerais mon œuvre entière pour une de ces petites phrases. Je traque l’inconnu.
I tagli e le modifiche apportati al testo di partenza sono evidenti. Si può dire che Cocteau tratta il suo stesso testo come aveva trattato precedentemente i testi di Sofocle e di Shakespeare, eliminando il superfluo e badando soprattutto alla linearità della drammaturgia. Esempi di contrazione della versione teatrale nella sceneggiatura del film sono riscontrabili in vari punti, ma questa citazione è sufficiente per comprendere il tipo di modifica attuata.
Insomma, nel caso di Orphée l’esigenza della trasposizione cinematografica è motivata diversamente: “un film était propre à mettre en œuvre les incidents de frontière qui séparent un monde de l’autre”. Abbiamo visto come per Cocteau una delle qualità caratteristiche del cinema consisteva nella possibilità di mostrare l’invisibile, di rendere reale l’irreale; ed è chiaro quanto questa possibilità fosse allettante nel caso di un intreccio in cui i personaggi entrano ed escono dagli specchi, muoiono e risorgono, cambiano incessantemente dimensione. Il mezzo filmico permette inoltre di mostrare al pubblico il viaggio di Orfeo nell’aldilà, che nella versione del 1925 avviene fuori scena. Quale mezzo migliore di un film, allora, per rendere evidente il rapporto fra i due mondi di cui partecipa il poeta, e per mostrare in maniera realista (nel senso in cui lo intende Cocteau) il mondo che si apre oltre lo specchio?
Diversamente che per i due film cui abbiamo rapidamente fatto cenno, le differenze fra i due Orphée sono tante e significative. I personaggi restano grosso modo gli stessi: Orfeo, Euridice, Heurtebise, la Morte. Se i caratteri della coppia terrena non subiscono modifiche di rilievo, per gli altri due bisogna fare un discorso a parte. Nel film Heurtebise non è più un angelo, ma lo spettro di un giovane suicida: ecco riapparire il tema del suicidio, che tanta parte ha avuto nella vita e nell’opera di Cocteau. Da angelo-vetraio che era nella pièce, egli diventa un giovane morto, entrato a far parte dell’organizzazione burocratica, per così dire, che presiede alle comunicazioni fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Un cambiamento ancora più evidente è quello a cui è sottoposto il secondo personaggio femminile; quella che nella versione teatrale era la Morte diventa qui una delle innumerevoli figure della morte, non più incarnazione, sebbene ironica, delle grandi paure dell’uomo ma piuttosto una figura di subalterna, quasi una segretaria, nell’immenso ed inconoscibile apparato che regola la vita e la morte degli esseri. Cocteau tiene a precisare:
La princesse ne symbolise pas la mort puisque le film est sans symboles. Elle n’est pas plus la mort qu’une hôtesse de l’air n’est un ange. Elle est la mort d’Orphée, comme elle décidera d’être celle de Cégeste et celle d’Eurydice. Elle est une des innombrables fonctionnaires de la mort. Chacun de nous possède sa mort qui le surveille depuis sa naissance.
Elle joue en quelque sorte le rôle d’une espionne chargée de surveiller un homme et qui le sauve en se perdant.
Inversione paradossale, la morte è presentata come una sorta di angelo custode: ne esiste una per ogni individuo mortale, che lo sorveglia dalla nascita. I tratti che distinguevano il personaggio della Morte nella pièce sono amplificati: alla sua bellezza ed alla sua straordinaria eleganza è aggiunto un titolo di nobiltà. Ai quattro personaggi principali se ne aggiunge un quinto, che avrà un ruolo ancora più importante nel Testament d’Orphée: Jacques Cégeste, giovane poeta di diciassette anni (ennesimo alter ego di Raymond Radiguet?), adorato dai nemici di Orfeo ed “assunto” dalla principessa alle proprie dipendenze. Da notare che Cégeste era il nome dell’angelo che subentrava a Heurtebise al momento della sua morte, nella poesia omonima.
Così come i personaggi, anche i rapporti fra loro sono differenti rispetto al 1925. Novità principale, la relazione sentimentale che intercorre fra la principessa ed Orfeo; essa raffigura in modo quanto mai esplicito
cette profonde attraction des poètes pour tout ce qui dépasse le monde qu’ils habitent, leur acharnement à vaincre l’infirmité qui nous ampute d’une foule d’instincts qui nous hantent sans que nous puissions leur donner une forme précise ni les agir.
Parallelamente, Heurtebise è innamorato di Euridice. Né la principessa né il suo autista hanno il diritto di amare, e con il loro sentimento contravvengono alle leggi astruse che governano l’aldilà, seminando lo scompiglio nella tranquilla esistenza borghese di Orfeo ed Euridice. Con questa invenzione Cocteau arricchisce ancora la trama del suo soggetto, istituendo un ulteriore rapporto di tensione fra i due mondi; come Orfeo va verso la morte, verso l’altro mondo, così gli abitanti dell’altro mondo si avvicinano verso il nostro, lasciandosi invadere da sentimenti umani nei confronti di umani.
Nella contemporaneità in cui è ambientato il film, meno bozzettistica e stilizzata di quella del primo Orphée, la figura del cavallo è sostituita da un’altra, meno forzata e più attuale: un’autoradio. In effetti nel film vediamo Orfeo trascurare Euridice e il figlio che lei porta in grembo (altra novità dal carattere, ci sembra, un po’ feuilletonistico) e passare tutto il suo tempo nel garage, intento a captare e trascrivere gli strani messaggi emessi dalla radio della vettura della principessa. Autore di queste frasi misteriose è Cégeste, strumento della principessa, che utilizza lo stratagemma dei messaggi per attirare a sé Orfeo. Anche qui però, come per il cavallo, qualcosa rimane ambigua. In una scena del film vediamo Cégeste, collegato ad una ricetrasmittente, mentre trasmette un messaggio, e nell’inquadratura successiva Orfeo, nella rimessa, che riceve lo stesso messaggio. E’ dunque fuor di dubbio che sia Cégeste a pronunziare quelle frasi per distrarre Orfeo, nella scena in questione, e dare così il tempo alla principessa di prendere con sé Euridice. Ma all’inizio del film, quando Orfeo incontra per la prima volta la principessa e la accompagna verso lo chalet, il cadavere di Cégeste è nell’automobile e non è stato ancora compiuto il rituale per cui il giovane entrerà alle dipendenze della donna; tuttavia durante il tragitto la radio trasmette dei messaggi in tutto simili, per la loro incongruenza, a quelli che ascolteremo successivamente dalla voce di Cégeste. Anche nello chalet Orfeo, girando la manopola di una radio che si trova nella camera della principessa, sentirà gli stessi messaggi. Ma allora chi è che li trasmette? Essi non possono essere soltanto un’impostura ordita dalla principessa, poiché essi preesistono all’interessamento di questa per Orfeo. Dunque Cégeste potrebbe non essere che un veicolo attraverso cui essi arrivano nel mondo dei vivi, ma neanche questa ipotesi è sostenibile; infatti i letterati avversari di Orfeo accuseranno quest’ultimo di plagio ai danni di Cégeste, che allora utilizza, per trasmettere i messaggi, versi tratti dai suoi componimenti. La questione rimane aperta.
Veniamo ora ad occuparci di quello che ci sembra il momento culminante del film, cioè la scena in cui la principessa si sacrifica per dare al suo poeta l’immortalità. Dopo la seconda discesa, quella legittima, di Orfeo nell’aldilà, assistiamo al suo incontro con la principessa, oggetto del suo amore. Dopo che i due si scambiano una dichiarazione d’amore, bruscamente la donna si rivolge al suo aiutante:
LA PRINCESSE – Heurtebise, vous savez ce que j’attends de vous?
HEURTEBISE – Mais… madame…
LA PRINCESSE – C’est notre dernier pouvoir. Et il n’y a plus une seconde à perdre.
HEURTEBISE – Réfléchissez encore…
LA PRINCESSE – Il ne faut pas réfléchir, Heurtebise !
HEURTEBISE – Rien n’est plus grave, dans aucun monde.
LA PRINCESSE – Seriez-vous lâche ? – Elle se retourne vers Orphée
VOIX DE L’AUTEUR – La mort d’un poète doit se sacrifier pour le rendre immortel.
LA PRINCESSE – Orphée… Je te demande, une fois pour toutes, de ne pas essayer de comprendre ce que je vais faire. Car, en vérité, il serait même difficile de le comprendre dans notre monde.
In questo scambio drammaticamente teso sta tutto il senso del film, e forse di tutta la rivisitazione orfica di Cocteau: se è vero che il poeta è immortale, allora l’entità che presiede alla sua morte deve mettersi da parte, deve disobbedire agli ordini che riceve dall’alto, deve insomma sacrificarsi per offrire al poeta la vita eterna. L’operazione che Heurtebise e Cégeste, controllati dalla principessa, fanno subire ad Orfeo, è, come spiega Cocteau, “la mort infligée à un mort, donc qui le fait revivre”. E così, mentre i tre si accaniscono sul corpo di Orfeo, noi lo vediamo risalire indietro nel tempo, la scena della sua prima visita agli inferi si ripete all’inverso, ed eccolo riunito ad Euridice, prima che lei morisse. Il tempo trascorso viene abolito, e i due non conserveranno che un vago ricordo di tutto quello che (non) è successo. I due sposi sono riuniti, il nucleo familiare è ricomposto, i nemici sono messi a tacere. I protagonisti (ammesso che nel film Euridice abbia una parte da protagonista) si ritrovano anche questa volta, ma non nell’aldilà: essi possono ricominciare la loro vita dal momento in cui essa ha subito l’irruzione del paranormale. Tutto il resto non esiste più. E Heurtebise non manca di osservare, nella sequenza finale: “il fallait les remettre dans leur eau sale”. Prima di essere punito, insieme alla principessa, per avere turbato l’ordine che governa questo e l’altro mondo, Heurtebise si rassegna all’impossibilità di convivenza effettiva fra i vivi e i morti.
Un’ultima osservazione sulle novità introdotte da Cocteau nel film rispetto alla pièce: dei motociclisti che hanno un ruolo molto importante in Orphée. Essi sono i responsabili diretti della morte di Cégeste e di quella di Euridice, scortano l’automobile della principessa fino allo chalet, svolgono la funzione di uscieri nella sequenza del processo. I motociclisti si trovano al grado più basso della gerarchia che prosegue, nell’ordine, con Cégeste, Heurtebise, la principessa e i suoi giudici. L’origine della presenza di questi servitori della Morte nella storia di Orfeo va ricercata, ancora una volta, nella poesia. In Plain-Chant troviamo:
Rien ne sert de prier cette vieille statue,
De savoir ses desseins ;
Car ce n’est pas la mort elle-même qui tue.
Elle a ses assassins.
Ancora una volta la Morte è messa in relazione con la Statua, ma inoltre si parla dei suoi assassini: la Morte ha al suo servizio dei sicari che, per usare una terminologia da film noir, fanno il lavoro sporco al suo posto. In effetti nel film non vediamo mai la principessa uccidere: lei opera su persone già morte, o almeno già pronte a subire il rito che renderà effettivo il loro trapasso. Sono i motociclisti ad uccidere fisicamente Cégeste ed Euridice, mentre alla principessa tocca il compito di effettuare lo strano rituale che li lega per sempre a sé. Per confermare la loro subalternità essi ci vengono presentati anche come uscieri della corte infernale.
E’ giusto interrogarsi sul motivo per cui Cocteau ha scelto di rappresentare i dipendenti più umili della principessa come dei motociclisti. A livello simbolico, essi sono da mettere in relazione con i ciclisti, figure ricorrenti in Opéra e Léone. A livello psicanalitico, ciclisti e motociclisti sono sostituti dell’archetipo del Cavallo, presente nel primo Orphée e nel Testament d’Orphée. Proprio in quest’ultimo film il cavallo ha un ruolo molto importante: è un uomo-cavallo a condurre il Poeta nell’accampamento dei gitani, punto di partenza del cammino che lo porterà al cospetto della dea Atena quindi alla morte e resurrezione; sono appunto due uomini-cavallo che appaiono accanto ad Atena e che depongono in seguito il Poeta morto sul catafalco. Essi sono insomma le entità che nel Testament d’Orphée presiedono agli avvenimenti capitali dell’iniziazione del Poeta. Si riscontra quindi una gradazione, dal cavallo all’uomo-cavallo al motociclista. In Orphée il motociclista è vestito come un poliziotto, con stivali e guanti di pelle nera e divisa, incarnando uno degli stereotipi dell’erotismo omosessuale: viene così confermata la valenza sessuale della simbologia equina.
Abbiamo visto come il mitologema orfico è stato trattato da Cocteau, facendolo rientrare coerentemente nella sua poetica. Ma va anche osservato che il film che stiamo analizzando presenta alcuni spunti autobiografici che legano ancora di più le vicende di Orfeo alla storia personale di Cocteau.
Sergej Diaghilev, impresario dei Ballets Russes, è a quanto pare il responsabile del profondo cambiamento che portò Cocteau a scrivere Le Potomak ed a rinnegare le sue precedenti raccolte poetiche. Egli infatti, dopo una serata a teatro, avrebbe pronunciato all’indirizzo del giovane poeta due parole che non sarebbero rimaste sterili. Cocteau racconta:
Une nuit de 1912, je nous vois place de la Concorde. Diaghilev rentre après le spectacle, la mâchoire en désordre, l’œil humide comme l’huître portugaise, le chapeau minuscule juché sur son chef énorme. […] J’étais à l’âge absurde où l’on se croit poète et je sentais chez Diaghilev une résistance polie. Je l’interrogeais : « Etonne-moi, me répondit-il ; j’attendrai que tu m’étonnes. » Cette phrase me sauva d’une carrière de brio. Je devinai vite qu’on n’étonne pas un Diaghilev en quinze jours. De cette minute je décidai de mourir et de revivre. Le travail fut long et atroce. Cette rupture… je la dois, comme tant d’autres, à cet ogre, à ce monstre sacré, au désir d’étonner ce prince russe qui ne supportait de vivre que pour susciter des merveilles.
Diaghilev, in quella serata del 1912, ha inconsapevolmente esercitato su Cocteau l’autorità paterna di cui egli aveva bisogno per evitare una carriera frivola e mondana, e per consacrarsi ad un’attività poetica più profonda. Pochi anni dopo infatti Cocteau si lascerà alle spalle i componimenti di stile ed estetizzanti con cui aveva cominciato a farsi conoscere per creare opere molto più originali come Le Potomak e Parade. Non a caso egli parla di morte e resurrezione, apparentando già la sua carriera a quella del cantore mitico.
Trentasette anni dopo l’esclamazione di Diaghilev, Cocteau se ne ricorderà nel suo film Orphée. Nella prima sequenza, Orfeo conversa con un intellettuale che gli fa notare come il pubblico cominci a preferire le poesie dei giovani autori del Café des Poètes a quelle del bardo nazionale. Orfeo gli chiede:
ORPHEE – Mon cas est-il sans appel ?
LE MONSIEUR – Non. S’il l’était, vous ne provoqueriez pas de haine.
ORPHEE – Que faut-il donc que je fasse ? Que je me batte ?
LE MONSIEUR – Etonnez-nous.
All’inizio del film Orfeo è un poeta in crisi, come lo era Cocteau nel 1912. Un altro artista gli fa notare che il pubblico ha bisogno di essere scosso, di essere stupito. Altrove, nel film, Orfeo spiega ad Euridice: “Je somnolais sur mes lauriers. Il est capital que je me réveille”. E nell’Orphée teatrale troviamo una battuta che corrisponde a questa: “Il faut jeter une bombe. Il faut obtenir un scandale. Il faut un de ces orages qui rafraîchissent l’air. On étouffe. On ne respire plus”. Orfeo-Cocteau si è svegliato ed ha scritto Le Potomak, lo scandalo c’è stato e si chiamava Parade. Come Cocteau, Orfeo devia dalla strada intrapresa per seguire un altro ideale poetico. Cocteau decise di morire e rinascere; Orfeo, poche scene dopo, intraprende il suo primo descensus ad inferos.
Ma le corrispondenze biografiche non si fermano qui: il Café des Poètes dove ha luogo il primo incontro fra Orfeo e la principessa è esplicitamente paragonato, nella sceneggiatura del film, al Café de Flore di Parigi, famoso ritrovo di Sartre, Beauvoir, Prévert, Vian, insomma di coloro che nel periodo in cui si svolgevano le riprese di Orphée formavano il gruppo esistenzialista. Orfeo soffre del paragone che il pubblico fa tra la sua poesia e quella degli avventori del Café des Poètes, e si rende conto della distanza che separa la sua condizione dalla loro. Allo stesso modo, Cocteau soffriva nel rendersi conto che la generazione di cui lui faceva parte costituiva oramai la vecchia guardia rispetto ai nuovi intellettuali di cui Jean-Paul Sartre era il capofila. Gli esistenzialisti rappresentavano i nemici di Cocteau come quegli intellettuali sono visti da Orfeo come nemici. La cosa è tanto più evidente se pensiamo che Cocteau ha scelto per interpretare il ruolo di Aglaonice Juliette Gréco, la musa del Quartiere Latino. Se pensiamo all’Orphée teatrale, possiamo analogamente identificare nel gruppo delle Baccanti i seguaci di André Breton, i Surrealisti, che affermavano esplicitamente di volere la testa di Cocteau. Nella figura del cavallo possiamo forse leggere la tentazione surrealista a cui Cocteau si è mostrato sensibile pochi anni prima della stesura di Orphée, e che lo portò alla brusca rottura col gruppo. A questi elementi bisogna aggiungere che nel film Orfeo è vittima, come lo fu Cocteau per molte delle sue pubblicazioni, di accuse di plagio proveniente dai gruppi intellettuali avversari.
Attraverso questi dettagli, Cocteau è riuscito a portare a termine completamente l’identificazione orfica. Del resto nel film successivo ad Orphée, Le Testament d’Orphée, l’identificazione sarà totale: non ci sarà più bisogno di affidare il ruolo del poeta ad un attore, per quanto l’attore in questione, Jean Marais, fosse intimamente legato all’autore. Stavolta il poeta si mostrerà a viso scoperto: il Poeta è Orfeo.
Per concludere, bisogna vedere quale sia il rilievo dato al mito di Orfeo negli altri due film che, insieme ad Orphée, costituiscono quello che la critica tradizionalmente chiama il ciclo orfico. Paradossalmente, Le Sang d’un poète contiene più riferimenti ad Orfeo che non Le Testament d’Orphée. In quest’ultimo film, infatti, Orfeo è poco più che nominato nel titolo. Egli viene presentato come una delle ossessioni costanti di Cocteau insieme ad Edipo (“toujours cet « Orphée », toujours cet « Œdipe » ! ”), ma del mito tradizionale non resta molto. Come Orfeo, il protagonista del film, Jean Cocteau, compie un viaggio iniziatico, alla cui estremità si trova la morte, seguita da una resurrezione immediata. Ma il particolare carattere nombrilistico del film non permette di trovare altre congruenze. Cocteau stesso spiega:
Le Testament d’Orphée : ce titre n’a aucun rapport direct avec mon film. Il signifiait que je lègue ce dernier poème visuel à tous les jeunes qui m’ont fait confiance malgré l’incompréhension totale dont mes contemporains m’entourent.
Il film non ha alcun rapporto con il mito di Orfeo. In esso ritroviamo tutti i personaggi mitici della Machine infernale, Atena, Isotta, ma Orfeo è solamente citato. Questo avviene proprio perché l’identificazione è completa fra i due poeti: con questo film il vecchio Orfeo, tre anni prima di passare definitivamente dall’altro lato dello specchio, lancia un messaggio alla nuova generazione che non cesserà mai di sostenerlo.
Diverso è il discorso per Le Sang d’un poète: benché questo primo film sia, come l’ultimo, una sorta di summa dei temi e delle ossessioni ricorrenti nell’opera di Cocteau, in esso un rapporto con la vicenda di Orfeo è riscontrabile in maniera molto più diretta, anche se non perfettamente esplicita. Anche qui un poeta, anzi il Poeta, compie un viaggio attraverso lo specchio alla ricerca delle origini della poesia. Anche qui il Poeta muore, risorge e muore ancora una volta fino a raggiungere l’immortalità. L’analogia con Orfeo è evidente. Inoltre nella scena del primo suicidio del Poeta, egli è rappresentato con la corona d’alloro, e i rivoli di sangue che gli sgorgano dalle tempie vengono a formare dei lembi di tessuto, che lo ricoprono drappeggiandosi; egli è dunque raffigurato secondo gli schemi correnti dell’iconografia classica, coronato d’alloro e vestito di una tunica. Del resto un indizio del legame che profondamente lega Le Sang d’un poète ad Orphée ci è fornito dallo stesso Cocteau:
La nécessité pour le poète de traverser des morts successives et de renaître sous une forme plus proche de sa personne est la base du Sang d’un poète. Thème joué avec un doigt, et pour cause, puisque j’inventais un métier que je ne connaissais pas. Dans Orphée, j’orchestre le thème. C’est pourquoi les deux films s’apparentent à vingt ans de distance.
Affermare che il film che si ispira direttamente alle vicende di Orfeo è l’orchestrazione del Sang d’un poète, vuol dire ammettere che all’interno di quest’ultimo erano già presenti in nuce tutti gli elementi del mitologema.
Abbiamo così tentato di dimostrare in quale maniera ed in quale misura Jean Cocteau è riuscito ad inserire nel suo universo letterario e mitico una storia, quella di Orfeo ed Euridice, che è nata in tempi e luoghi lontanissimi da lui, trovandola perfettamente concorde col suo personale modo di sentire e di concepire la poesia, la morte e la missione del poeta |